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Perché vorrei un Natale diverso - di Vittorio Feltri



Il Natale narrato attraverso i ricordi di un esponente della stampa italiana. Ho scelto di condividere l’articolo che Vittorio Feltri ha scritto in questi giorni. Personalmente, avrei aggiunto che, nella mia famiglia, il Natale di un tempo rappresentava anche l’occasione in cui le case degli italiani si trasformavano in autentici laboratori artigianali di pasta fresca: ravioli di brasato, agnolini, pasta fresca, biscotti e molto altro.

Natale resta una fenditura nella normalità, qualcosa che disturba e chiede di essere preso sul serio. Dio che non manda un messaggio, ma viene. Non spiega: nasce. Da bambini lo sentivamo. Le stelle sembravano più vicine


Vittorio Feltri 21 dicembre 2025 - 10:00

Confesso: non vorrei somigliare a quel signore che sarei io, il quale ripete ogni anno di non veder l'ora passino le feste per evitare la noia e il fastidio di confusione e smancerie. Che ci posso fare? Questo mi suscita il Natale di oggi, dove agli idioti che vorrebbero abrogarlo, sostituendolo con la Festa dell'Inverno o simili, si risponde con l'invito di «salvare il Natale» (era un titolo di prima pagina del Corriere della sera del 2021). Mia madre e poi vecchi preti pieni di giovinezza mi avevano insegnato che era il Natale a salvare noi. Non sto a ripetere quel che mi disse il cardinale Giacomo Biffi, che inspiegabilmente mi voleva bene, e mi raccomandava di guardare il festeggiato, cioè Gesù che nasce, invece dei festanti che lo trattano come una favola occidentale e non come «l'Eterno che è entrato nel tempo». Guardarlo e poi misurarsi con questa pretesa inaudita, che pure persino Virgilio, pagano ed epicureo, presentiva sarebbe accaduta. Questo disse a me nel 1999 a Bologna, trasformandomi da ateo disilluso in miscredente sì, ma riluttante, pieno di nostalgia per un altro Natale.

Mi è capitato di ritrovare un filo d'oro che avevo perduto, e mi è risalito il desiderio di imbattermi in quella notte silenziosa, Stille Nacht, come dice letteralmente la canzone austriaca. So quel che dico: la versione italiana, «Astro del ciel, pargol divin», fu opera di monsignor Angelo Mei, proprio il sacerdote che mi insegnò a contenere i palpiti del cuore, per non sciuparli. Mi è capitata davanti agli occhi, come una luce improvvisa - quasi la coda di una cometa a sovrastare l'andatura di pacifici cammelli una lettera di Giovannino Guareschi. La scrive alla moglie Ennia dal carcere di Parma nel 1954. «Non mi manca niente. Di una sola cosa ti prego: che la sera della Vigilia di Natale tu imbandisca la tavola nel modo più

lieto possibile. Fai schiodare la cassa delle stoviglie e quella della cristalleria; scegli la tovaglia migliore, quella nuovissima piena di ricami; accendi tutte le lampade. E prepara un grosso albero di Natale con tante candeline, prepara con cura il presepe vicino alla finestra, come l'anno scorso. Signora, io ho bisogno che tu faccia questo. Signora, bisogna che, almeno la notte di Natale, il mio pensiero, fuggendo dal recinto, possa trovare un angolo tiepido e luminoso in cui sostare. Voglio tanta luce: voglio rivedere il vostro volto, voglio rivedere il volto dell'antica serenità. Altrimenti che gusto c'è a fare il prigioniero?». Era in prigione per un articolo giudicato diffamatorio, ma non è questa la storia che interessa a lui. Il Natale gli torna addosso come una carezza e come una ferita. Non chiede indulgenza, né maledice la sua condizione. Desidera «un angolo tiepido e luminoso in cui sostare». È una pagina che non è un ricordo: è memoria. E la memoria non è mai neutra. Porta con sé calore, affetto, ma anche una punta di dolore. Perché ci dice che quel bene non era un'illusione. Era reale. Più reale ancora del recinto in cui siamo rinchiusi. Ecco sfondiamo anche noi questo recinto delle apparenze. Avevo undici anni in quel Natale di Giovannino, ero prigioniero della mia condizione di orfano con i miei due fratelli, eppure quel recinto era scavalcato prima dall'attesa e poi dallo stupore. Ricordo di quelle notti il bacio che davamo in chiesa ai piedini freddi di Gesù Bambino che il parroco abbassava verso i volti dei piccoli. Non erano di legno, erano vivi, come i nostri piedi freddi, che la mamma al ritorno ci avrebbe sfregato, scaldandoli, e ci spiaceva che quei piedini a Gesù glieli avrebbero poi inchiodati alla croce, ma poi luminosi saltare su dalla tomba, risorti anche loro. Non era una favola, una magia, ma la realtà credevamo - che si faceva avanti, e ci invitava a guardare più in là. La meraviglia di quel che accadeva ci invadeva di speranza.

E quest'anno vorrei ascoltare con voi Guareschi: propongo di strappare via gli involucri e i fiocchi con cui negli anni abbiamo nascosto quel bambinello gelato riscaldato dal fiato caldo dell'asino e del bue: un tremito di nostalgia pungente. Che mi fa (quasi, non esageriamo) contento di avere avuto prole e nipoti, a infastidirmi, tanto mi conoscono, lo sanno che da me non trovano il nonno saggio.

Per una volta cercherò però di non spegnere la festa con il disincanto. Guareschi lo racconta con la sua ironia spietata. Natale come festa dei bambini, dice l'ingenua tiritera, qualcuno risponde in rima (e mi ci riconosco) festa dei cretini. Urla, baraonda, Giovannino ci fa ridere. Ma sotto c'è un nodo alla gola. Perché anche in quel caos, Natale resta una fenditura nella normalità, qualcosa che disturba e chiede di essere preso sul serio. Dio che non manda un messaggio, ma viene. Non spiega: nasce. Da bambini lo sentivamo. Le stelle sembravano più vicine. Gli animali parlavano. L'acqua cantava. Non era superstizione. Era percezione. Era la sensazione che la realtà fosse più grande di quello che vedevamo. Che per una notte il mondo tornasse abitabile. Oggi siamo più smaliziati.

Ma sotto il cinismo resta lo struggimento. Vorremmo recuperare quello stupore. Vorremmo l'attesa dei bambini. Vorremmo, almeno a Natale, la gioia di vedere la gaiezza nei bambini. È forse l'unica invidia che ci è concessa senza vergogna.

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